
Vincenzo A. Romano
In ogni momento del mondo e del tempo una figura di donna compie la sua veglia funebre. La faceva Giuseppina Marcias quando Antonio, condannato al confino da un regime assassino e liberticida, le scriveva parole di fuoco per avere richiesto la grazia a Benito Mussolini. C’è sempre una mamma in Biafra o Darfour che tiene fra braccia scheletrite un corpicino spento dall’inedia causata da un uomo che ingrassa lontano migliaia di miglia succhiando la vita del bimbo con una pipeline fatta di tanti piccoli corpicini accumulati nei secoli dello sfruttamento assassino. Era conseguenza logica di una visione del mondo diviso in classi quella che faceva vedere – già nel 1848 – a Marx ed Engels, intenti a scrivere il loro Manifesto, la mondializzazione del lavoro e del commercio, l’eterno irrisolto conflitto della lotta di classe fra coloro che erano padroni e chi ne veniva sfruttato. Tutto si è consumato nell’arco del «Secolo Breve» dalla Catastrofe , all’Età dell’oro, sino alla Frana. Settantasette anni in cui tutto è accaduto. In cui si è lottato sperato ed infine perso. La grande speranza della rivoluzione d’Ottobre si è consumata per la sua incapacità di attecchire in un terreno infertile. Concepita per una società borghese si trovò a crescere in un mondo semifeudale pervaso dagli anni della “Catastrofe”. Dal 1914 al 1945 il luogo dove avrebbe dovuto attecchire il capovolgimento, l’inversione della proprietà dei mezzi di produzione fu il luogo dove la catastrofe si abbatté mietendo milioni di vite, sconquassando un’economia infeudata, producendo cannoni e carne per cannoni al posto del capovolgimento che sarebbe stato necessario. Fu la terra dove ventidue divisioni naziste non riuscirono a sfondare a Stalingrado mentre l’industria pesante sfornava carri, che saldati con sbavature da 2 centimetri, resistevano alle cariche cave degli 88 tedeschi. Il resto del mondo capitalista produceva frigoriferi e perfino i primi televisori per famiglie. Nell’Età dell’Oro scoppiò la guerra fredda che per il mondo che doveva compiere la rivoluzione proletaria impedì la riconversione dell’industria pesante. Non c’era stato il Comunismo, almeno non quello di Marx, ma una superpotenza che produceva armi invece che elettrodomestici, che –sotto assedio- esportava armi invece che benessere. Ed il proletariato non disponeva del controllo dei mezzi di produzione. La catastrofe s’ ebbe, secondo molti e si concluse, con la caduta del muro di Berlino. Giungevano a chiusura settantasette anni di “secolo breve” e 73 di esperimento comunista. Una grande idea catalizzatrice di riscossa e progresso. Lo spirito della rivoluzione comunista e della lotta di classe -per cui Gramsci aveva aperto dal fondo oscuro di un carcere un grande progetto di sovrumano pensiero- aveva fallito nell’unico posto dove fu tentata e non aveva l’humus per svilupparsi sotto l’assedio di quel capitale che avrebbe dovuto sconfiggere e contro il quale non ebbe la capacità di combattere.
Ma è la sconfitta dell’URSS, non quella del “comunismo”. La lotta di classe permane perché sono rimaste intatte e in molti casi si sono potenziate, le ragioni per le quali “doveva” nascere. Oggi come nel 1848 permane l’idea che sia necessario che la lotta continui anche se il possesso dei mezzi di produzione non passerà nelle mani dei lavoratori. La guerra è persa, ma non la necessità della lotta perché –nel frattempo- il capitale ha assunto proporzioni mostruose e il lavoro salari da fame. Già vent’anni or sono un filosofo che ama Parmenide e considera l’ essere eterno, al massimo come lo svolgersi della bobina di Einstein (Dio non gioca ai dadi) vedeva una nuova rivoluzione proletaria aggirarsi nel mondo dove i protagonisti sarebbero stati i nuovi proletari , i paria di quel terzo e quarto mondo che allora appena premevano ai confini ed ora sono ormai dentro l’impero. Per i nuovi esclusi, per gli espulsi, i migranti, i nuovi portatori di povertà occorrerà impegnare tutta la responsabilità di chi oggi è ancora comunista e di chi , abbandonate le croste che ci impediscono di vedere oltre, saprà ricostruire e dare vita all’ idea: sconfitta, ma viva e non sopita. Dobbiamo intenderci, da oggi, sulle parole. E’ cambiato non solo il secolo, ma il millennio, è cambiato il rapporto di forza (nel quale il capitalismo ha assunto una preponderanza totalizzante) è cambiato il sistema economico-finanzirio dove è difficile localizzare (secondo i vecchi parametri) chi sia il padrone dei mezzi di produzione, è cambiato il lessico. Il concetto stesso di proletario (oltre a quello di padrone) ha cambiato connotazione e non è più individuabile nel lavoratore della fabbrica come nemmeno in quello di produttore di braccia per il lavoro. La stessa proprietà non è più quella che rispondeva ai concetti classici per i quali ci siamo battuti. Essa è impalpabile, viaggia, si sposta sui circuiti telematici diventando ora bene materiale ed un momento dopo capitale finanziario di difficile individuazione. Il padrone non è più persona fisica ma concetto economico. La globalizzazione dell’ economia permette di mantenere un immenso potere reale perdendo un intero complesso produttivo in India e, contemporaneamente, aumentando il profitto generale della stessa multinazionale. La TyssenKrupp può ardere otto vite a Torino e contemporaneamente meditare il licenziamento, a obiettivi spenti, di quegli operai che hanno denunciato la strage riuscendo, sempre nello stesso tempo, ad aumentare la produzione a Terni come a Lahore. Mai è stata così vera la legge del caos. Il battito delle ali di una farfalla brasiliana può scatenare un cataclisma in Cina. Ma il Comunismo come noi lo intendiamo attraverso la secolare esperienza non è mondo della produzione esclusivamente. Influenzato dal corrente pensiero scientifico organicistico Marx pensava e definiva “struttura” e “sovrastrutture” non come due mondi separati ed indipendenti, ma come un complesso organico ove il processo economico fosse come la carne di un braccio e nervi, tendini e pelle che lo tenevano unito la sovrastruttura che lo permeava, per cui diventavano unici ed inscindibili ciascuno con le proprie precipue funzioni ma insieme proiettate a mantenere in vita un organismo che era “l’uomo sociale” che avanzava nella storia.
La responsabilità del comunista è oggi di riprendere quei concetti e risottoporli a giudizio critico cos’ che l’esame dei processi economici e produttivi, della redistribuzione del reddito e dell’emancipazione dei nuovi proletari sia sottoposto a processo insieme con il riemergente fenomeno della abnorme funzione dei poteri forti che sono contemporaneamente anche finanziari, politici e geopolitici e di ingerenza religiosa tesa a riprendersi quanto aveva dovuto cedere dalla fine del 900 al termine dell’ «Età dell’oro» in termini di laicità dello stato, delle istituzioni della separazione fra libertà di pensiero e droga delle coscienze.
La responsabilità del Comunismo è questa. Riportare nel giusto binario, con – finalmente un disequilibrio a favore degli sfruttati- tutto il complesso sistema di rapporti che governano i mondi antagonisti : del lavoro e della proprietà, della libertà laica delle coscienze contro le ingerenze di un fideismo immutabile che è la nuova “garrota” e la “pira” del libero pensiero, dell’oppressione e dei diritti intangibili ed immutabili della persona intesa come uomo sociale. Dopo le ondate che ci hanno travolti, dal capitalismo d’assalto, alla crisi del modello dell’Unione Sovietica; dalla sconfitta dei piani quinquennali al dominio assoluto della globalizzazione economica ; dopo la caduta e la sopraffazione del liberismo più sfrenato, la deriva socialdemocratica ed ora centrista degli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente occorre riappropriarci della cultura, dei metodi, dei fini del movimento operaio almeno dal grande rinnovamento berlingueriano. Un partito comunista non si riprodurrà più nei termini di quello che abbiamo conosciuto (sarebbe una farsa) dovrà rinascere come partito (e forse prima movimento) operaio. Dei lavoratori sfruttatati, precari, sottopagati, deprivati di un cospicuo numero delle conquiste ottenute con le lotte per lo stato del benessere sociale. Occorre quindi una rivoluzione culturale e meglio ancora occorre studiare l’esperienza comunista in chiave moderna. La responsabilità del gruppo dirigente e dei gruppi dirigenti in genere, sta nella capacità d’analisi della situazione, dell’abbandono della crosta ideologica accumulata sino ad oggi, della capacità di rinnovare rimanendo entro il solco della riconquista dei diritti perduti e per l’affrancamento dalla morsa e dall’assedio di quelli che ora sono i poteri dominanti: la chiesa in campo ideologico per il ritorno alla concezione laica e progressista della persona; il mondo economico-industrial-finanziario per evitare che si chiuda completamente la morsa dello sfruttamento incontrollato, massiccio e come visto omicida; la nuova era della guerra permanente inaugurata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre e che – per esperienza storica – anche una rinnovata amministrazione democratica non sarà capace di frenare per le spinte lobbistiche che governano quel sistema paese : industria delle armi, globalizzazione per la massimizzazione del profitto, sistema finanziario che ha inglobato, la precedente supremazia delle industria multinazionali. Questi i nemici che sarà impossibile sconfiggere almeno per il prossimo quarto di secolo.
Il periodo occorrente per ricrearsi di due condizioni: la presa di coscienza della classe lavoratrice delle rinnovate capacità di lotta da intraprendere con gli esclusi del mondo (le masse che stanno migrando dalla povertà estrema all’illusione del benessere che potranno essere i protagonisti della nuova lotta di classe) ; una cultura diffusa ma fortemente creduta e voluta di pace, di riscatto di riconquista dei diritti. Si dovrà studiare. Prima di tutto il sistema economico che non potrà rifarsi al marxismo classico, ma incunearsi in quello attuale valorizzandone le componenti più favorevoli. Se nel prossimo quarto di secolo non ci si potrà avere il controllo dei mezzi di produzione si potrà mirare –comunque- alla massima occupazione con le miglioro condizioni delle retribuzioni e delle pensioni. Penso ad una reinvenzione keynesiana della massima occupazione attraverso il massiccio intervento dello stato nelle opere pubbliche. E’ un percorso difficile, ma va analizzato perché ha un nemico interno formidabile : l’altissimo livello della corruzione a tutti gli stadi, nel pubblico, nel privato, nei gangli dello Stato in mano alle mafie di varia denominazione. Si riproporrà – immediato – il problema della questione morale che ormai riguarda il nostro stesso partito. Con il suggerimento berlingueriano dovremo scindere la politica dalle istituzioni e dagli affari, noi come primi. Esiste un ineludibile problema. La crescita numerica come precondizione, quella culturale come necessità. Ma non sarà sufficiente perché sarà necessario creare quadri che siano: numerosi, motivati, dotati di preparazione culturale e politica ed in grado di fare sia proselitismo sia educazione. Partire dalle basi insomma ripercorrendo in forme diverse,ma con metodo uguale quanto già fece Gramsci ai primordi. A questo punto è necessario fissare dei paletti: chi è oggi comunista? Per attuare almeno i primi passi sulla strada che si è per ora solo ipotizzata occorre una base che, per la grande inferiorità di mezzi e la potenza degli avversari sia di una certa consistenza. Sia Italiana, perché di questo ambito ci occupiamo, sia in grado di aggregare quel sottoproletariato urbano che è costituito dagli immigrati. Qui la prima falla. Costoro non sono dalla nostra parte: primo per nostra incuria, secondo perché molti gravitanti attorno alle mense e dormitori religiosi, terzo perché in essi sta penetrando un’organizzazione sindacale alleata, ma diversa che è la CISL. Il sottoproletariato urbano indigeno ed i nuovi poveri gravitano invece attorno alla Caritas ed alle altre organizzazioni religiose. Siamo dunque in ritardo nel proselitismo di quelle masse che Emanuele Severino individuava come i probabili attori di una nuova rivoluzione (di tipo comunista).
Primo dovere è allora uscire dalla torre e tornare in mezzo al popolo. Domanda: siamo ancora capaci di farlo o ci siamo talmente imborghesiti da non esserne più capaci? Lottiamo per insediarci nei gangli delle istituzioni (ogni livello è appetibile) o stiamo fra il popolo? L’esperienza isolana non mi conforta e per questo spero in una diversa situazione nel paese.
Tornando ai Comunisti occorre contarci ed aggregarci. Al vertice e dal vertice è partito il segnale. Cosa sta accadendo in periferia? Qualche sezione si muove, alcune federazioni hanno iniziato il processo di aggregazione. Aggregarsi, dalla esperienza odierna, significa abbastanza poco: discutere, trovare obiettivi comuni, tentare o proporsi di tentare di risolverli in maniera unitaria o almeno concorrendo alla loro realizzazione. Seppure si parla di confederarsi –che sarebbe il primo gradino per contare istituzionalmente e politicamente- ciò è ancora lontano. E’ innegabile che vi siano molte resistenze interne a ciascuna delle quattro componenti e l’impressione è che la perdita di “potere” (non di identità si badi bene) sia un deterrente molto forte. E’ come dice Oliviero Diliberto un potere sul nulla (solo il PRC ha una struttura ed un numero che potrebbero garantirglielo – suddivisioni interne a parte), ma ciascuno è restio a lasciare che altri entri nel proprio pollaio.
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